31 ottobre 2007

Notte buia - Terza parte




DOON DOON DOON Tre rintocchi di campana.
Nuovamente tre rintocchi di campana. Tre rintocchi di campana che mi destano.
Apro gli occhi. Dove sono? Ci metto un po’ a mettere a fuoco ciò che mi circonda. Sono ancora in macchina. Fermo sul ciglio della strada. Il motore acceso. L’area calda che viene sospinta nell’abitacolo dalla ventolina che gira. La radio spenta. A destra e sinistra non ho più il mare e la pineta, ma nuovamente i campi.
Un buco nella coperta della trapunta di nuvole mostra l’angolo di cielo dove la luna sta transitando. Un fascio di luce viene rovesciato sui campi. Desolazione. Questi campi hanno un area strana. Non si vede alcuna traccia di vita animale o vegetale. Solo terra. Non mi sembrano gli stessi campi attraversati nel viaggio di andata.
Riparto. Non so perché ma sento la necessità di allontanarmi da qui. Le ruote slittano un po’ sul brecciolino facendo si che l’auto non reagisca prontamente ai comandi impartiti. Appena giunti sull’asfalto della carreggiata la macchina prende il giusto andazzo. Vado avanti, o almeno questo è quello che spero.
La strada e dritta eppure non riesco a vederne la fine. L’auto scorre lungo il tragitto che dovrebbe portarmi a casa o comunque lontano da qui. Un incrocio.
All’improvviso un incrocio.
Non c’è nessuna indicazione. Ed ora? Da che parte devo andare?
Provo a guardare in tutte le direzione per scorgere qualcosa che possa darmi un indizio. Nulla. Stringo gli occhi nel tentativo di guardare più lontano, nella posizione della vedetta miope. Niente di fatto.
Cerco di fare mente locale e capire almeno dove sono i punti cardinali. Nord. Sud. Est. Ovest. La casa che ho lasciato si trova a Sud di quella dove vorrei essere ora, la mia. Quindi, dovrei procedere verso Nord, sempre che non abbia già superato casa mia. Se così fosse vorrebbe dire che mi sono allontanato verso Est od Ovest in un movimento diagonale o circolare, oppure semicircolare o una spezzata. Confusione. Caos.
Ho i neuroni che rimbalzano tra di loro e contro la mia scatola cranica come palline in un barattolo che cade dalle scale. Mal di testa. Nervosismo. Ancora più mal di testa.
BAASTAAAAAAA!!!
Istinto. Mi devo affidare al mio istinto.
Giro a sinistra.
Seguo la via del cuore, come farebbe la Tamaro. Speriamo porti fortuna anche a me.
Procedo per quello che potrebbe essere un minuto come un ora o una vita. Non so. Il non avere punti di riferimento spaziali mi sta facendo perdere anche quelli temporali.
C’è un piccolo slargo. Accosto. Mi fermo. Di nuovo. Non so cosa fare. La disperazione monta neanche fosse maionese, ed il rischio è che poi impazzisca, io.
Calma. Mi ripeto più volte calma come se fosse un tantra che possa allineare i miei chakra. Devo stare calmo.
Alzo gli occhi e, nel cono di luce dei fari, vedo una persona attraversare la strada. Una testa bionda spunta da un mantello nero. Un attimo ed è passata.
Scendo. In un attimo sono alla rincorsa di quest’anima notturna. Non mi sfiora neanche il pensiero del pericolo che può essere legato ad un incontro notturno in un luogo isolato e desolato.
Grido il più classico dei MI SCUSI, con la speranza che la sorte sia girata e di trovare, tra le conoscenze della persona che sto inseguendo, quella che mi riporterà a casa.
La figura si ferma. Si gira. Lei. Di nuovo lei. Solo che ora è bionda. Mi guarda. Non è stupita ne spaventata di vedermi lì, mentre io si. Mi tremano le gambe.
Sono lì davanti a lei con la mandibola che sfiora la strada. L’encefalogramma è definitivamente piatto mentre il cardiogramma sembra un progetto per le montagne russe.
Raccolgo tutte le mie energie e riesco a chiederle dove sono e cosa stia mai succedendo.
Lei mi sorride di nuovo. Apre le bocca ma non sento nulla. Non è possibile.
Faccio uno scatto e l’afferro per le braccia. Due sensazioni diametralmente opposte risalgono i miei arti superiori e si scontrano al centro del mio essere. Freddo e caldo. Gelo e bollore. Lei è ghiaccio bollente.
Questa volta resisto. Non la lascio andare. Le urlo tutta la mia disperazione. Lei rimane impassibile. Poi inizia a ridere. Una risata piena. Rumorosa. Oscillante. Lentamente però la usa espressione cambia. Tutte le linee del suo viso vengono piegate verso il basso sino a mostrarmi una donna che piange.
La lascio.
Lei smette di colpo di piangere e mi fissa.
Questa volta sono io a girarmi ed ad andarmene. Vado verso la macchina che ha ancora la portiera aperta. Salgo. Chiudo la portiera. Mi gira la testa. Chiudo gli occhi. Li riapro. Mi volto nella direzione dove prima c’era la ragazza, ma so già che non vedrò nulla. Sarà di nuovo scomparsa.
No! È lì e mi fissa. Immobile. Sembra una statua.
Parto facendo sgommare le ruote e sfiorando la ragazza ferma sulla strada. Sto scappando. Sono in fuga e non so neanche da cosa. Guardo nello specchietto e lei non c’è. Mi allontano.
Riguardo istintivamente nello specchietto, vedo solo la striscia di bitume delimitata da due linee bianche. Vuota. Sospiro, ma con poco sollievo. Ora la strada scorre veloce aggredita dai pneumatici che ruotano in maniera frenetica.
Il fiume di dubbi incrina la diga della paura sino a farla crollare. La domanda più forte e prepotente che si fa avanti è COSA STA SUCCEDENDO???
C’è qualcosa che non va. Ma cosa? Mi volto e seduta a fianco a me c’è lei. Ma come, quando, perché è salita?!
Lei sta guardando fissa davanti a se. Appena nota che la sto guardando si volta e mi fa cenno di tenere d’occhio la strada. Non dico o penso nulla. Giro la testa e seguo il suo consiglio. Mi concentro sulla strada. Il paesaggio cambia continuamente come se la pellicola di questo film fosse un patchwork di mille paesaggi . Giorno e notte, mare e montagna, sole e pioggia, città e campagna, verde e deserto, terra…cielo.
Non siamo più nell’abitacolo della mia auto, ma su una gondola che ondeggia tra le nuvole. Perso. Mi sento totalmente perso e meravigliato.

30 ottobre 2007

Notte buia - Parte seconda


DOON DOON DOON. Tre rintocchi di campana.
Tre rintocchi di campana!?! Di nuovo!? Ma com’è possibile? Dove sono? Cos’è tutto questo buio e questo vento caldo che sento sulla faccia?
Ho gli occhi chiusi. Li devo aver chiusi quando ho sentito l’orologio del campanile battere le ore o li avevo già chiusi prima? Ma perché?
Li apro. Sono in macchina. La macchina è ferma. È ferma sul ciglio della strada. La strada è ancora avvolta dalla nebbia, ma questa pian piano sta svanendo. Una strana sensazione bussa alla mia anima. Credo proprio che qualcuno mi stia guardando. Degli occhi gialli con piccole fessure nere sono davanti a me. Un gatto.
Un gatto dal pelo fulvo, con una macchia bianca sul muso, mi fissa. Un ululato in lontananza risuona vibrante portato dal vento che si è alzato. Il gatto salta giù dalla macchina e scappa nei campi. Un altro ululato. Più vicino. Quel suono mi fa accapponare la pelle, tanto che il mio primo riflesso è quello di chiudere le portiere della macchina. Silenzio. Cerco di concentrarmi. Non sento nulla. Non riesco a respirare. Dov’è l’aria. La lingua è arida e la bocca secca. Apro lo sportello. Scendo. Aria. Ho bisogno di aria. Ho bisogno di aria più di quanto la paura mi attanagli. I polmoni, come due mantici che lavorano al contrario, aspirano l’ossigeno e lo distribuiscono, tramite i globuli rossi, in tutto il corpo. Sono solo. Ora. Ho freddo anche nell’anima.
Non capisco cosa sia successo.
Il vento freddo che arriva dai campi mi aiuta a risvegliarmi, od almeno questa è la sensazione che provo. Mi sento più lucido, come dopo una doccia rinvigorente. Altri due respiri profondi e risalgo in macchina. La macchina è ancora accesa. Riparto. Spengo il riscaldamento. La luna ora è nascosta dietro una nuvola, se ne intravede solo l’alone. Cartello. Finalmente un indicazione. Ancora pochi chilometri e sarò a casa. Cosa sarà stato? Un colpo di sonno? Probabile. La settimana pesante in ufficio e la serata di baldorie mi avranno giocato un brutto scherzo. Per fortuna non è successo nulla.
Credo.
Arrivo al parcheggio del condominio dove abito. Cancello. Radiocomando. Pulsante open. Aperto. Tornello dei box. Box 125. Scendo. Apro la porta basculante. Mi volto verso l’auto e noto, incastrato sotto il tergicristallo, un fiore. Una rosa nera con delle striature blu. Come ci sarà arrivata? Sono sicuro che prima non c’era.
La prendo. Mi pungo. Ahi.
Nello stesso istante in cui il sangue inizia ad uscire sento qualcosa che mi tocca la gamba destra. Mi volto di colpo. Un gatto. Un gatto nero con la coda bianca. Inarca la schiena e si strofina di nuovo. Lo accarezzo. Lui, o lei, miagola. Cerco di capire se c’è qualcuno in giro che possa aver lasciato il fiore sul parabrezza della mia auto. Magari il proprietario del gatto. Il felino sembra aver letto i miei pensieri, gira la testa e mi guarda. In realtà non mi guarda, mi fissa. Miagola di nuovo prima di partire all’inseguimento di chi sa cosa, forse della sua colazione.
Metto la macchina nella “stalla”. In uno spazio così piccolo riposano comodamente tutti gli 80 cavalli del motore della mia carrozza.
Salgo a casa. Apro la porta. Cucina. Lavello. Apro il rubinetto e riempio mezza bottiglia di vino. Questa l’ho svuotata qualche sera fa; in uno di quei momenti in cui cercavo conforto tra le braccia di una dama pericolosa, che attenua e cancella per un attimo il dolore, per poi restituirtelo amplificato quando ne diventi schiavo. La utilizzo come vaso per la rosa. Camera da letto. Mi spoglio e mi corico sotto le coperte. Le lenzuola sono fredde. Mi rannicchio in posizione fetale. Fortunatamente il caldo corporeo riscalda velocemente il giaciglio. Chiudo nuovamente gli occhi. Esco da questo mondo e mi ritrovo nuovamente in macchina. La radio trasmette la musica di Orfeo. La strada scorre lenta. In macchina non sono solo. C’è qualcuno accanto a me. Mi volto.
È la ragazza che ho visto, che credo di aver visto, sulla strada questa sera solo che ha i capelli neri. Di un nero così intenso da sembrare blu. La strada è la stessa che ho percorso questa notte, solo che al posto dei campi da una parte c’è il mare e dall’altra una pineta. Buia. Guardo la strada e cerco di riconoscere i luoghi. Non ce la faccio. Mi volto verso il passeggero. Lei guarda fisso davanti a se. Di profilo sembra ancor di più una bambola. Provo a chiederle dove siamo. Lei si volta. Mi guarda. Sorride. I denti sono di un bianco abbacinante. Si volta e torna a guardare davanti a se. Le chiedo come si chiama. Nulla. Provo a ripetere la domanda. Ancora nulla. Provo ad allungare la mano per toccarla e richiamare la sua attenzione. Lei appena sente il contatto della mia mano fa un balzo sul sedile. Io ritraggo prontamente l’arto che mi brucia. Mi sembra di aver preso una teglia dal forno senza guanti. Il palmo mi fa male. Cerco di capire cosa sia successo. Guardo prima la mia mano destra e poi lei. Poi di nuovo la mia mano destra e di nuovo lei. Lei mi fissa e cerca di dirmi qualcosa. Non sento. Il volume della radio si è alzato improvvisamente.
Non capisco come sia successo.
La spengo, ma quando alzo lo sguardo verso il posto alla mia destra vedo solo il sedile. Nulla. D’istinto mi volto a guardare i posti dietro. Nulla anche lì. Guardo in tutti gli specchietti, fuori dal finestrino. Nulla. È scomparsa di nuovo.
Ma cosa sta succedendo? Fermo la macchina. Le mani mi tremano. Stringo il volante e cerco di mettere a fuoco il paesaggio che ho davanti. Non capisco. Le mani mi si fanno rapidamente bianche. Sto stringendo troppo forte. Lascio il volante e faccio cadere le braccia. Mi butto sul sedile e mi rendo conto che sto digrignando i denti. Provo a rilassarmi. Cerco di distendere i nervi del viso e di respirare con regolarità. Chiudo gli occhi. Cerco di non farmi sopraffare dall’angoscia. Uno strano rumore viene da fuori. Velocemente alzo le palpebre. La pupilla è dilatata. Sul cofano della macchina c’è un gabbiano che mi guarda. D’istinto suono il clacson per farlo scappare. dall’auto esce un suono basso da sirena portuale. Il volatile prende il volo lasciando sulla carrozzeria un ricordo di se, che un buon lavaggio toglierà via.
Di colpo sento le onde infrangersi sugli scogli alla mia destra. Un altro colpo ai miei timpani viene dato dai rumori che arrivano dalla pineta alla mia sinistra.
Ma dove sono?

29 ottobre 2007

Notte buia - Parte prima


Sono in macchina in questa notte fredda e buia di fine Ottobre. Le nuvole rispecchiano l’inquinamento luminoso e rendono il cielo di un rosso ovattato. Ogni tanto una luna piena e pelosa sbuca da questa trapunta ed illumina, in maniera ancor più fredda dell’area, il paesaggio. Ma che paesaggio. Questa foschia rende indefiniti i contorni al di fuori dell’abitacolo. Fisso la riga di mezz’aria e la seguo come il naso di uno stupefatto pedina la polvere sullo specchietto. La stazione radio trasmette le solite canzoni d’amore. Dovrei cambiare stazione radio, ma il supporto hi-fi è molto fedele a questa emittente, tanto da farmi sentire solo le sue note. Dopo un po’ la musica risulta tremolante, sembra che la radio abbia preso una brutta tosse rendendo difficoltoso l’ascolto delle sue onde. Forse il mare dell’etere si è leggermente congelato. Fa veramente freddo. Spengo la radio. Come compagno di viaggio è poco di compagnia. Per fortuna il riscaldamento, sparato a palla, lenisce questa gelida serata. Peccato che non ci sia un comando simile per togliere il freddo che sento nel cuore.

Il silenzio mi riporta prepotentemente alla serata appena trascorsa. I pensieri vengono a galla come piccole bollicine di una bevanda troppo gasata.
Telefonata. Cena. Dopo cena. Un bicchierino. Casa. La sua. Baci. Camera da letto. Nudi. Sesso. Non amore. Lei si addormenta. Rivestirsi. La guardo. Uscire. Auto. Fuga.
Ogni volta che la vita colpisce duro mi ritrovo nel letto di una donna a scaricare tutta la mia rabbia e frustrazione. Le reazioni chimiche innescate dall’accoppiamento, all’interno del mio corpo, attutiscono per un po’ l’amaro che la vita mi ha servito. Peccato che questa non sia una cura, ma solo un paliativo. Chi sa lei domani cosa penserà. Si ricorderà della notte brava? Sarò stato anch’io per lei solo uno zuccherino per togliere il gusto di vomito che a volte la vita ti fa sentire in bocca, quando ormai hai ingoiato troppe bruttezze e non ce la fai più a trattenerle. E mentre cerchi di urlare tutta la tua rabbia queste risalgono sino in gola, sino al cavo orale. Ti riempiono la bocca facendo in modo che tu non possa gridare, ma solo sentirne nuovamente il sapore.

L’asfalto scorre lento sotto le ruote della macchina. Non vede l’ora di arrivare a casa, la mia, o meglio della banca sino a quando non finirò di pagare il mio debito con il gentile istituto creditizio che mi ha prestato i soldi per permettere di realizzare il mio sogno. Non essere un bamboccione. Avere uno spazio mio, dove poter essere RE, anche se per ora me ne sento schiavo. Mutuo. Spesa. Pulizia. Riordinare.
Da quanto sono in viaggio? Eppure all’andata non mi sembrava di aver fatto così tanti chilometri. Sarà stata la bramosia. Cerco qualche punto di riferimento, ma nulla. La visibilità è sempre più ridotta e su questa statale non c’è neanche un posto illuminato dove fermarsi. Ci sono solo campi ed alberi. Di giorno questa strada è un parcheggio in movimento. La velocità di crociera solitamente è inferiore a quella di una lumaca in fase di trasloco. Ed ora non passa neanche una macchina. Sono in Italia ma potrei essere in Transilvania. Chi sa se girano vampiri e lupi mannari per questa brughiere.

Frena. Freno. Pedale del freno. Pigio. Ruote bloccate. Un fischio acuto. Sono fermo. L’auto è ferma.
Sono riuscito a bloccarmi a qualche pelo da questa figura che mi si è parata davanti. Il cuore in compenso è partito in una tarantella super accelerata. Sento i battiti rimbombare nel cranio, come se il mio muscolo cardiaco avesse preso l’arteria giugulare e fosso arrivato direttamente tra le orecchie.
Il respiro si è perso. I polmoni cercano di richiamarlo. E per fortuna non c’è bisogno di chiamare chi l'ha visto. È tornato come il più fedele dei collie irlandesi. I polmoni tornano a riempirsi e le corde vocali a vibrare.
La figura è ancora lì. Mi sembra di essere davanti ad una fotografia. L’immagine si fa più nitida a mano a mano che il sangue torna a fluire in maniera uniforme nelle vene. Gli occhi mettono a fuoco l’insieme. Davanti ai fari della macchina c’è una ragazza dai lunghi capelli ricci. Rossi. La pelle lattea ed il vestito nero, come quello di un’educanda, mi fanno ricordare una delle bambole di porcellana che mia nonna teneva sul comò in camera da letto. La corporatura esile, gli occhi grandi , forse anche troppo per l’ovale del suo viso. Il naso è importante, ma non stona sul viso di questa sconosciuta. Un piccolo neo appena sopra il labbro superiore, come andava di moda tra le signore di epoche diverse ed ormai lontane… mi ritrovo così a fare un identikit mentale di questa persona che mi fissa.
Sento il suo sguardo su di me, anzi dentro di me.
Ok le sinapsi cerebrali stanno tornando a fare il loro dovere. Scendo dall’auto e chiedo alla ragazza se va tutto bene, se si è fatta male, ed una nuvoletta di vapore esce, con il suono, dalla mia bocca. Lei segue i miei movimenti tenendo lo sguardo fisso e muovendo leggermente la testa. Ma non mi risponde, forse è ancora spaventata.


Mi avvicino e sento DOON DOON DOON. Tre rintocchi di campana.
Mi blocco, e non solo io. Anche il cuore che prima batteva come i pistoni di una formula uno sul rettilineo di Monza ora si è fermato. Tre rintocchi di campana. Non ricordo di aver visto chiese lungo la strada. Il cuore riprende a camminare. Prima piano e poi sempre un po’ più forte sino a raggiungere il normale funzionamento. Lo sguardo della ragazza è sempre più fisso e pesante. Mi sembra di avere sulle spalle uno zaino pieno di sassi, freddi.
Un brivido mi sale dalla schiena ed arriva sino alla nuca e da lì si dirama verso la radice di ogni capello che non ha ancora salutato i suoi compagni sulla collina sopra la mia fronte.
Mi avvicino ed allungo una mano per scuoterla, ma il contatto con quel essere mi trasmette una scossa che gela le ultime parti ancora calde nel mio corpo. Lei si divincola e fa un passo indietro senza distogliere gli occhi dai miei. Mi fissa come fanno a volte i bovini. Uno sguardo indecifrabile. Dentro le sue iridi nere mi sembra di vedere il vuoto.
Muove le labbra ma non sento alcun suono. Lei continua ad aprire e chiudere la bocca. Le dico che non sento nulla per cui mi avvicino. Scuote la testa. Fa nuovamente un passo indietro e continua a muovere la mandibola, il palato ma le sue corde vocali sono immobili. Fisso allora quelle labbra violacee, esangui, e cerco di leggere il messaggio che mi vuole trasmettere, ma non capisco nulla. Forse sto cercando di leggere un libro scritto in un’altra lingua. Distolgo gli occhi dalla parte bassa del viso richiamato dal suo sguardo che si fa a poco a poco più leggero. I suoi contorni si fanno sempre meno definiti. La nebbia sta scendendo troppo velocemente. La chiamo. Non sento alcun suono. Faccio un passo verso quest’essere sempre più etereo. Grido, ma mi sembra che il suono della mia voce sia tutta dentro di me. Non riesco a sentirlo. Provo ad avvicinarmi ma non riesco più a vederla. Mi guardo in giro, mi volto in tutte le direzioni. Aguzzo la vista neanche stessi cercando l’indizio risolutore di un gioco enigmatico.
Non c’è più. Scomparsa.
Mi guardo in giro. Chiamo. Nulla. Silenzio.

25 ottobre 2007

Non lo rifarei

Questa mattina pensavo a quale argomento sviluppare per il prossimo post. È un po’ di tempo che mi gira questa idea. Non so a quanti sia capitato di sentirsi porre la domanda:
ma se tu potessi tornare indietro, che faresti? Rifaresti tutto nello stesso modo o cambieresti qualcosa?
Cambierei un bel po’ di cose. Sicuramente eviterei la quantità di errori e cavolate fatte.
Meglio farne di nuovi.

So che ci sono cose che non potrei cambiare, ma per le altre ci proverei. Molto probabilmente così facendo non sarei quello che sono oggi. Forse sarei peggio o meglio (più bello di così ne dubito, ed anche per la fine intelligenza ed i modi gentili non credo si possa fare di più. Per la modestia, forse, oppure conviene aspettare la prossima release).
Non riesco a capire quelli che dicono rifarei tutto. Allora dai tuoi errori non hai capito nulla! Studiare la storia, ed in questo caso l’avresti vissuta, serve proprio per evitare di commettere gli stessi vecchi errori. Meglio quelli nuovi.
Eppure a volte mi ritrovo in un déjà vu. Eccomi che rifaccio il medesimo sbaglio. Ma come sarà mai possibile mi chiedo. È più forte di me. Ci sono occasioni che mi vedono sempre protagonista di sviste e cantonate da concorso di sosia di Paperino.

Mentre il mio ripetere in maniera diabolica la stessa mancanza, crea problemi maggiormente a me, quelli ripetuti da governanti e gente di potere si ripercuotono su migliaia di persone, se non addirittura su milioni di essi, eppure si torna sempre al punto di partenza, come nel Monopoli, magari passando dalla galera o pagando la sosta in Parco della Vittoria e piangendo su Vicolo Corto.
Ma non voglio dare a loro tutta la colpa. Se sono arrivati lì vuol dire che qualcuno lo ha permesso o non ha fatto nulla per evitarlo o ridimensionarli. Un amico ha scritto nel suo blog:

PERCHE' IL MALE TRIONFI,
E' SUFFICIENTE CHE
IL BENE RINUNCI ALL'AZIONE !!!

E forse un po’ di colpa ce l’ho anch’io…ok togliamo il forse.

Ora bisogna capire cosa fare per rimediare a questi errori. A volte bastano delle scuse, altre volte le scuse devono essere più ricche di una semplice frase. Potrebbe bastare far valere i propri diritti e mettere la X su un'altra lista. Oppure capire quando è necessario smetterla di stare zitti o cominciare.

Vi lascio con il pensiero della sera:
Chi fa può sbagliare.
Chi non fa sbaglia sicuramente!

22 ottobre 2007

Cipolla

Questa settimana ho partecipato alla proclamazione dei Dottori in Ricerca, in qualità di pubblico, in quanto amico ed ex collega di alcuni di loro. Come tutti gli eventi di questo genere, dopo i discorsi noiosissimi e retorici delle autorità, c’è stata la vera e propria proclamazione di queste persone che dovrebbero diventare il fiore all’occhiello della ricerca italiana. La speranza di molti è che tra i proclamati ci sia un futuro nobel, qualcuno capace di dare una svolta nel suo campo di studi.
Finiti i convenevoli è partito il solito assalto al buffet, riportando l’atmosfera a qualcosa di più reale e tangibile dell’area fritta dei discorsi fatti da questi signorotti togati. Ma non è di questo che voglio parlare. Dovete avere ancora un po’ di pazienza.
Fatto le foto, mangiato e fatto altre foto, sono tornato in ufficio.
Appena seduto alla mia postazione sono stato nuovamente catapultato nella solita routine, neanche la sedia fosse una macchina del tempo ed il pc una console. Riecco le utenti che chiamano con le richieste più stupide.
E sì, se i miei ex colleghi lavorano in un ambiente che dovrebbe stimolare la loro intelligenza, e quindi il loro lavoro dovrebbe essere legato alle loro capacità di elaborazione mentale e non ad appendici orali utilizzate per la pulizia di orifizi fortunati (leggasi LECCA CULO), io lavoro spesso a contatto con la stupidità di qualcun altro. Mi capita spesso di lamentarmi, con i colleghi, della scarsa attività cerebrale dei miei utenti; ed ogni volta mi tornano in mente le parole della mia ex responsabile di progetto:” ringrazia che loro sono stupide, altrimenti noi non avremo il lavoro”. Quindi io lavoro solo perché c’è qualcuno di così deficiente che non è in grado di essere lasciato solo al lavoro.
Come quando si compra una macchina, che si pensa unica e poi si inizia a vederne uguali da tutte le parti, così inizio a leggere da tutte le parti di intelligenza e stupidità. Premi nobel, e quindi persone che si dovrebbero ritenere intelligenti, escono con affermazioni di una stupidità ancestrale disarmante, oppure la telefonata che ti riporta alla mente le parole di un grande studioso del secolo scorso. C.M. Cipolla.
Cipolla ha dato una sua definizione di stupidità, oltre ad alcune regole:

1. Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione.
2. La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della persona stessa.
3. Una persona è stupida se causa un danno a un’altra persona o ad un gruppo di persone senza realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo un danno.
4. Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide; dimenticano costantemente che in qualsiasi momento e luogo, e in qualunque circostanza, trattare o associarsi con individui stupidi costituisce infallibilmente un costoso errore.
5. La persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista.

Come si vede dalla terza legge, Cipolla individua due fattori da considerare per indagare il comportamento umano:
Danni o vantaggi che l'individuo procura a sé stesso
Danni o vantaggi che l'individuo procura agli altri

Da qui si ottiene il sottostante grafico:





E se dovessi essere sincero, molte volte i miei utenti vivono saltellando, come rosei chobin terrestri, tra lo stato di stupidi e quello di sprovveduti.

Nel mondo ci sono le persone che fanno la cosa giusta e quelle felici. ecco i miei utenti sono tutti felici, e non solo loro, mentre io, quando ho a che fare con loro, cado nella più buia tristezza.
E' proprio vero che è l’ignoranza a rendere felici, mentre la conoscenza porta dubbi e tristezza. Pensate al fascino di una magia, se viene spiegato il trucco, si perde il mistero che avvolge l'illusione e quindi tutto lo stupore e la felicità che essa provoca.
Ed ecco l’ennesima telefonata. La solita richiesta.
Ignorante dovrebbe indicara una persona che ignora, quindi se gli dico che è ignorante, esce dallo status di ignorante per atterrare direttamente in quello di deficiente. Cosi la smette di ignorare ed inizia a deficere. Ogni volta che cerco di spiegare dove è stato fatto l’errore, mi sembra di parlare con un muro su cui qualcuno ha scritto “ abbaso la squola” come un novello pinocchio.
È proprio vero che: "STUPIDO E’ CHI LO STUPIDO FA!!!"

15 ottobre 2007

IMMAGINI E PAROLE





Ecco, mi sono fatto convincere a fare questo maledetto viaggio e non posso neanche arrabbiarmi con la persona che mi ha convinto, visto che sono proprio io. Questi sdoppiamenti di personalità per autoconvincermi a fare le cose che già so che farò mi sembra solo una difesa di carta davanti al mare di terra che si vede dal finestrino di questo aereo.
Se non ne vedessi le ali direi di essere su un toboga al Luna Park da come si balla, anche se a ben guardare l’aereo ricorda uno di quelli delle giostre, ma dove sarà mai il baracchino dello zucchero filato…lasciamo perdere ogni vaga idea di mettere nello stomaco qualcosa. Dovevo utilizzare il metodo Marquez, bere quattro whiskey prima di salire in aereo, ma probabilmente il pilota se ne è serviti anche di più. Quando sono salito e l’ho visto mi sembrava uno di quei barboni ubriachi appena uscito dalla casa della provvidenza con il vestito “nuovo” in dosso. Tra le altre cose aveva uno sguardo che gli permetteva di guardare in contemporanea gli strumenti ed il paesaggio, nel senso del culo dell’hostess. Ma i piloti non dovevano avere una vista perfetta? Probabilmente lui ce l’ha, almeno per un occhio alla volta.
Spero non voglia usare l’aereo come shaker per agitare il suo martini, che qui quello che si agita sono io, e sono anche senza oliva, quindi cattivo.
Gli altoparlanti gracchiano che ci troviamo in una zona di vuoti d’aria, e quindi ci prega di tenere allacciate le cinture e di chiudere i tavolini davanti a noi. Se potessi gli direi che oltre la cintura mi sono legato al sedile anche con le bretelle, tanto da sembrare un esperimento di escapologia.
Devo pensare a qualcosa, devo riuscire a concentrarmi su un’idea od un pensiero altrimenti quando scendo da questo aereo sembrerò il fratello del pilota. La gente mi guarda come se fossi un maniaco appena uscito dal cinema dopo aver visto Arancia Meccanica, Natural Born Killer o Titanic, con l’idea fissa di ammazzare quel gastone di Di Caprio in maniera truculenta.
A che cosa posso pensare. Al lavoro lasciato in una delle città con la peggior area d’Europa? Agli utenti con il cervello sott’olio per conservare più a lungo il loro neurone adibito alle funzioni vitali?
Agli amici? Meglio le amiche, allora. Ma no che poi mi intristisco perché penso che non riesco mai a vederli. Ci sono penso alla stupenda rossa, occhi verdi che mi aspetta alla fine di questo viaggio. Ripenso al modo casuale con cui ci siamo conosciuti, alle belle giornate passate insieme nelle rispettive città di origine. Ai viaggi da lei. Alle lunghe telefonate in cui più delle parole contava il suono della sua voce. Alle gita fuori porte che finivano sempre con una pennichella su qualche prato all’ombra di qualche albero. Ai giorni grigi senza sentirla. Alle montagne russe dei sogni che la vedevano protagonista. A lei che si avvicina con in mano due bicchieri di buon nettare degli dei per accompagnare i ricchi e saporiti piatti delle sue terre.
Se continuo così va a finire che sbavo più di una lumaca e l’hostess rischia di scivolare fuori dall’aereo.
“Tra qualche minuto atterreremo all’aeroporto dell’isola che non c’è, siete pregati di spegnere ...”
Capitano non si preoccupi ho spento tutto, anche la facoltà di elaborare pensieri complessi. Non vedo l'ora di essere fuori di qui e dentro al mio sogno.
DRIIIIIN!!! DRIIIIIN!!! DRIIIIIN!!! DRIIIIIN!!!
Apro gli occhi e mi ritrovo in uno di quei Lunedì che vorresti che fosse già Sabato.
Il mio subconscio inizia ad intonare "ODIO I LUNEDI! ODIO QUEI GIORNI LI!"
Per i disegni un grazie a Diego.

08 ottobre 2007

EROI

Domenica mattina mi trovo con un amico a correre, come ormai è abitudine, al parco. Un paio di giri, dove oltre a macinare chilometri ci si racconta le reciproche settimane, e la mia, a dire il vero, non è stata propria bellissima.
La strada scorre sotto le scarpe e l’irritazione, o forse rabbia, delle giornate di m… appena trascorse è ancora lì. Ne approfitto e sfrutto questo surplus di energia e adrenalina come stimolo per correre di più.
Il mio collega, forse con alle spalle sette giorni meni nervosi, si ritira dopo 10,5 km e resto solo a sbollire la “nervatura”.
Corro e cerco di focalizzare la mente su qualche idea, magari finisce che ne esce un bel post. Non so come ma rivedo mio padre che mi accompagna in box per fare un po’ di manutenzione all’auto. Zoppica ancora e si lamenta che con i cambi di tempo la gamba un po’ gli fa male; e pensare che poco più di un anno fa ha rischiato di perderla quella gamba, per uno stupido incidente. E mia madre che mette in ordine ed inizia a preparare il pranzo della domenica che vedrà la famiglia riunirsi com’è classico nelle tipiche famiglie tradizionali del SUD.
Penso a loro ed alla mia settimana lavorativa, che come già detto non è stata bellissima. Mi vengono in mente tutte le difficoltà che devono, che dobbiamo affrontare ogni giorno e quelle affrontate nel corso dell’ultimo anno.

Salto carpiato all’indietro.


Ripercorro gli incontri di ieri con i miei amici diventati neo genitori, li vedo aiutarsi nella gestione dei piccoli e di come affrontino questa nuova “sfida” con il sorriso in volto anche quando parlano delle notti in bianco o del cambio dei pannolini. In loro c’è qualcosa dei miei genitori, qualcosa che c’è nella maggior parte dei genitori.
Salto raccolto con avvitamento.

Mi ritrovo così bambino, nei miei pensieri, a cercare di rammentare il testo di una filastrocca di Gianni Rodari, per fortuna a casa ho la raccolta dei suoi scritti. Mi riprometto di cercare il testo completo.
Trovato!!!


LA SCUOLA DEI GRANDI

Anche i grandi a scuola vanno
Tutti i giorni di tutto l’anno.
Una scuola senza banchi,
Senza grembiuli né fiocchi bianchi,
E che problemi, quei poveretti,
A risolver sono costretti:
In questo stipendio fateci stare
Vitto, alloggio e un po’ di mare
”.
La lezione è un vero guaio:
Studiate il conto del calzolaio”.
Che mal di testa, il compito in classe:
C’è l’esattore, pagate le tasse”.


Da bambino avevo un disco, in realtà ce l’ho tuttora, in cui venivano decantate molte filastrocche del buon Rodari, tra cui quella su citata. All’epoca vedevo i miei genitori e cercavo di capire quanto la filastrocca li rappresentasse.
Ed oggi apprezzo ancor di più questa poesia per bambini, e le parole mi sembrano sempre più vere.
Nuovo salto acrobatico signori e signore.


Vedo questi non “bambocci” alzarsi tutte le mattine ed affrontare le giornate, le settimane, i mesi e le stagioni non facendosi abbattere dalle difficoltà e dagli esami che si trovano ad affrontare. Ma anche i “bambocci” non scherzano per quanto riguarda il carico degli “zainetti”, anche loro hanno compiti e ricerche da fare. E a volte trovano una brava maestria che da loro una nota di merito, altre ricevono un richiamo dal direttore.
Sono tutti questi i miei eroi.
Queste persone comuni che non si fanno abbattere dalle difficoltà e dalle botte che la vita dispensa.
Le loro piccole guerre giornaliere, contro il traffico, i rincari, i casi della vita. Ogni giorno piccole battaglie che vengono vinte,perse o concluse con un nulla di fatto e rimandata a domani, o a giorni più adatti.
Quando hanno la fortuna dalla loro si gongolano un po’ per le piccole vittorie ottenute, peccato che non ci sia sempre la giusta folla ad applaudire; e quando ricevono una porta in faccia, si lamentano come dischi rotti, ma dentro di loro sono già alla ricerca di nuove porte o finestre.
E come a scuola è arrivato il magico DRIIIIIN DRIIIIIIIIN, tutti a casa.
Scusate, ma a casa mi aspetta la pappa al pomodoro, altrimenti faccio la Rivoluzione.

03 ottobre 2007

Utile Inutile

29 Settembre 2007
ore 21:27
Treno Verona - Milano
Sono su un treno che mi sta riportando a casa dopo una gita in un’altra città. Seduto in un vecchio scompartimento guardo il mio zaino appoggiato sulla poltrona di fronte. Cerco di ricordare i vari momenti della giornata appena trascorsa. Prendo dallo zaino il quaderno dove appunto le mie riflessioni e la mente divaga. Un famoso detto, forse un po’ abusato, dice che nel viaggio la cosa più importante non sia la meta ma il “viaggio”. Il muoversi, lo spostarsi, l’essere in moto.
Non so… Io dei viaggi apprezzo la capacità di farmi scoprire, o ricordare, ogni volta cosa è indispensabile e cosa è superfluo. Cosa è utile e cosa inutile. Peccato che di queste lezioni non riesca sempre a fare tesoro, e mi tocchi riscoprire di ripetere gli stessi errori ogni volta.
Non ricordo un viaggio in cui non abbia dimenticato qualcosa d’indispensabile a casa, che poi ho dovuto comprare o chiedere in prestito a qualche compagno di viaggio che, da buon samaritano previdente, mi viene in aiuto; e di aver portato dietro qualcosa che fa solo peso, oltre ad occupare spazio, in valigia e che non ho mai utilizzato. Tanto che a volte mi ritrovo a non svuotare neanche la valigia.
Ma com’è che quando sono partito avevo dato per scontato che non avrei potuto fare a meno di questa cosa? Non avrei potuto sopravvivere senza quest’oggetto del tutto inutile per il mio viaggio? Ma a cosa stavo pensando quando ho preparato la borsa?
Negli ultimi anni la mia valigia si è alleggerita, e con l’età questa cosa ha il suo bel valore oltre che i suoi vantaggi.
Ormai dò per scontato di dimenticare qualcosa a casa quando mi metto in partenza, e mi diverto a cercare di scoprire cosa sia questa cosa appena mi metto in moto e cosa sarà inutile. Lo so che può risultare stupido questo gioco, e che se invece di aspettare di uscire di casa per cercare di capire cosa sto dimenticando potrei farlo prima. Ci ho provato, ma ormai mi sono rassegnato, tanto poi finisce sempre nella stessa maniera. C’è qualcosa di scaramantico in tutto questo, se mi ricordo di prendere tutto, o di usare tutto, il viaggio non andrà bene, se invece qualcosa manca o è di troppo, allora gli dei proteggeranno questo sbadato. Qualcosa la dimentico e qualcosa di inutile mi finisce in valigia. A volte è stata una cintura, a volte la schiuma da barba o un paio di calzini in più. Le stesse cose a volte sono risultate indispensabili ed altre superflue, e questo rende difficile capire in quale gruppo devono finire le cose.
Nel mio ultimo viaggio ho scoperto che ciò di cui non posso fare a meno è una persona che condivida con me la meta. Arrivare ovunque senza poterlo condividere con qualcuno e come se si arrivasse ad un passo dal traguardo e ci si fermasse. A volte questa persona condivide con me tutto il viaggio, altre è alla meta a ricordarmi il perché della partenza o del ritorno.
La cosa inutile, che penso tutti avrebbero potuto capire subito che non mi sarebbe mai servita, è portarsi dietro un K-WAI quando si indossa già una giacca antipioggia e poi si trova una giornata di sole.
Chi sa cosa ne pensano di tutto questo le lumache.