28 luglio 2012

Il maestro Ogu - 3


Qualche giorno dopo la fine della festa del raccolto, il capitano Gedio si recò alla capanna del maestro Ogu accompagnato dal figlio Alopo. Mentre i due si avvicinavano alla capanna del maestro Ogu  questo  stava uscendo dal piccolo boschetto accompagnato dal mansueto Armenio che trascinava un piccolo tronco.  
Quando il maestro vide la coppia di nuovi venuti affacciarsi al limite del campo si fermò un attimo per scrutare chi fossero quei due che gli stavano venendo incontro. D’istinto aveva messo mano alla cintola dove però non trovò l’elsa della spada ma il manico dell’ascia. Quel riflesso era legato ad una delle sue tante vite precedenti dove la diffidenza e la prontezza di riflessi erano l’unica via per rimanere vivi e possibilmente interi. Riconosciuti i due nuovi venuti riprese il suo cammino verso la sua capanna.
Arrivato vicino ad una catasta di altri piccoli tronchi. Slegò il tronco e liberò Armenio dalle corde non prima di avergli però riconosciuto, con una manciata di sale, il buon lavoro fatto dall’animale.  Si tolse l’ascia e gli altri strumenti dalla cintura. Asciugò il sudore della fronte con un fazzoletto estratto dalla tasca e ripulitosi alla bene e meglio si avvicinò al capitano ed a suo figlio. I due erano rimasti fermi ai confini del campo all’ombra della capanna guardando i vari gesti fatti dal maestro. Al capitano non era sfuggito il gesto fatto dal maestro quando li aveva scorti, ma lo aveva battezzato come gesto normale per chi viveva in quell’epoca in cui nelle foreste, come per le vie della città, una fiera dalle sembianze animalesche o umane, poteva sempre palesarsi davanti al proprio cammino.
Il maestro, dopo un cenno di saluto, fece cenno ai due ospiti di accomodarsi in veranda per godere un po’ d’ombra e di frescura in questi ultimi giorni di sole che la stagione regalava.  Offrì loro dell’acqua per scacciare la calura legata al lavoro od al cammino. Bevuta la propria razione il capitano iniziò a parlare ed a spiegare il motivo che aveva portato lui ed il suo unico figlio maschio sino a lì.
Dopo i soliti convenevoli, e le parole riempitive per aprire la strada al vero motivo della venuta, il capo del villaggio chiese al maestro di diventare l’aio di suo figlio. Il ragazzo cresceva ed era ormai nell’età in cui era bene iniziare a riempire la testa anche di nozioni e non solo di favole e di giochi, di iniziare a diventare un uomo. Il capitano avrebbe ovviamente riconosciuto al maestro un obolo per il lavoro fatto. Mentre questi parlava e cercava di convincere il maestro il ragazzino continuava a tenere la testa bassa, come se non volesse mostrare il suo volto. Le braccia conserte e la postura la più immobile possibile, come se cercasse di nascondersi o di confondersi con il paesaggio. Il maestro però l’aveva riconosciuto. Era uno dei ragazzini che lo spiava e che faceva impazzire le donne che andavano al fiume per lavare i panni con i loro dispetti. Lo aveva visto nel gruppo di ragazzini che avevano dato fastidio un giorno al povero Armenio pungolandolo con alcuni rami. Lui era stato circondato dagli altri ragazzini del villaggio che lo incitavano ad imitarli ma lui era rimasto immobile. Erano i primi giorni in cui era arrivato al villaggio. Erano i giorni in cul le voci sullo straniero che aveva occupato la capanna al limite del bosco avevano iniziato a riempire la testa delle giovani menti di varie fantasie. Il maestro richiamato dai ragli del mansueto Armenio apparse come una magia davanti al gruppetto che scacciò urla e facendo vedere bene il bastone nodoso con cui avrebbe ripagato quei maleducati mocciosi. Il figlio del capitano allora era rimasto immobile a guardare il nuovo venuto, così uguale ad un uomo e così diverso dall’immagine di orco che si era fatto prima di scappare anche lui. Finita la sua arringa il capitano aspettava una risposta da parte del maestro ma questi si rivolse al ragazzo chiedendogli se lui voleva imparare a leggere, scrivere, far di conto, suonare etc.
Il capitano rispose di si, ma il maestro voleva sapere cosa pensasse il ragazzo non cosa desiderava il capitano e quindi ripeté la domanda rivolgendosi ancora al giovane seduto di fronte a lui. Il padre allora esortò il figlio a rispondere, cercando di suggerirgli cosa rispondere, quando il maestro con un gesto lo azzittì e chiese nuovamente quali fossero le intenzioni del ragazzo.
Questo a testa bassa rispose di sì. Il maestro lo esortò a ripetere la risposta guardandolo in faccia senza nascondersi. Il ragazzo allora alzò gli occhi non prima di aver gettato uno sguardo verso il bastone appoggiato all’ingresso e cercando di sostenere lo sguardo del maestro disse che voleva imparare.     

14 luglio 2012

Il maestro Ogu - 2


La locanda era affollata. Tutti i tavoli erano pieni e la faccia dell’oste ricordava i quadri della beatitudine che si vedevano appesi in alcuni postriboli. Il rumore delle voci, delle mandibole che masticavano e del tintinnare dei calici era impressionante. Il maestro Ogu ed il capitano Gedio vennero accolti dalla moglie dell’osta, una donna corpulenta di carnagione chiare con il viso pieno, i capelli ricci e nerissimi che spuntavano ribelli dalla bianca cuffia che indossava.
I due nuovi ospiti, visto il grado di importanza, vennero fatti sedere in una sala attigua, dove trovavano posto alcuni mercanti ed i frati scesi per la questua.
Il tavolo dei mercanti era imbandito di pietanze e brocche di vino, mentre su quello dei frati si vedevano solo una ciotola per commensale, dell’acqua ed una forma di pane. Mentre al primo tavolo si mangiava e si discuteva di acquisti e vendite, sul secondo regnava il silenzio. I due nuovi ospiti vennero fatti accomodare in un tavolo d’angolo che permetteva al capitano di vedere agevolmente chi entrava ed usciva dalla sala.
Ordinarono lo stufato ed una brocca di buon vino. Quelle furono le uniche parole che si dissero sino a quando il desco non accolse i piatti portati da un ragazzo che doveva essere il figlio del padrone. Il silenzio iniziava a farsi pesante. Ci pensò il capitano Gedio ad interromperlo con un brindisi per festeggiare gli affari fatti dal maestro Ogu. Il maestro alzò il calice e bevve un gran sorso di vino.
Anche in quest’epoca di mezzo, come in tutte le precedenti e le future, il buon vino scioglie le lingue e così iniziò l’interrogatorio amichevole del capitano. Il maestro raccontò di aver girato una buona parte del mondo, agli ordini di vari capitani e sotto diverse bandiere. Aveva ricoperto diversi ruoli tra cui cuoco, maestro d’ascia e medico. Questo spiegava l’abilità nel lavorare il legno e l’acquisto di alcune erbe medicali. Le risposte del maestro erano però povere di fronzoli e particolari. Tanto che ad ogni risposta aumentava la curiosità del capitano. Quando la domanda passò a dove avesse imparto a leggere e scrivere il maestro gettò un rapido sguardo al tavolo occupato dai monaci. Disse di aver imparato a leggere da giovane, prima di imbarcarsi nel lungo viaggio che lo aveva portato lì.
In quel momento era entrato nella sala un anziano viandante dal passo claudicante che si recò prima al tavolo dei mercanti e poi a quello dei frati. Ad entrambi i gruppi chiese se avessero visto nel loro viaggio un carro portato da un uomo di corporatura grossa e con una lunga barba nera. Doveva indossare un cappello nero con una piuma di gallo cedrone.  L’uomo era il fratello del viandante. Si erano dati appuntamento nel villaggio di Linoma per quel dì, ma non era riuscito a trovarlo ed era molto preoccupato che gli fosse capitato qualcosa.
Entrambi i tavoli risposero di non aver visto nessuno che corrispondeva a tale descrizione.
Il maestro che aveva sentito chiese all’anziano di avvicinarsi al tavolo per la sorpresa del capitano. Una volta lì gli offrì un calice di vino e poi si rivolse a lui in una strana lingua. Il volto dell’anziano trasfigurò. Rispose nello stesso idioma ed estrasse da sotto il mantello due sacche che poggiò sul tavolo. Il maestro estrasse una moneta da ogni sacca e la diede all’anziano che subito dopo corse fuori dalla locanda. La scene stupì il capitano Gedio che non aveva idea di cosa fosse successo davanti a lui in quei pochi istanti. Il maestro si alzò dal tavolo, e chiedendo il permesso al capitano ancora sbalordito, prese le due sacche e si recò ai due tavoli. Parlò prima con i frati in quello che il capitano intuì essere latino. Il maestro consegno la borsa a quello che sembrava essere il maggiore tra i fratelli.  I frati nel mentre si fecero il segno della croce più volte e si girarono nella direzione del capitano per ringraziarlo. Il maestro allora andò dai mercanti ed anche lì si svolse una scena simile. Questa volta ci fu anche un’alzata di calici ed un brindisi al capitano.
Fatto ciò tornò al tavolo dal capitano che era sempre più sbalordito. Chiese a bassa voce chiarimenti al maestro. Questo gli disse che i due tavoli lo ringraziavano per avergli restituito il mal tolto e per la magnanimità avute con l’anziano. Allora il capitano chiese maggior chiarimenti. Il maestro raccontò al capitano la stesa cosa detta agli altri tavoli.
Disse che l’anziano era un Orlad, regno che si trovava al di là delle montagne, con una famiglia da sfamare.  Il capitano si era accorto del furto con destrezza. Aveva perciò bloccato l’anziano e lo aveva obbligato a restituire il mal tolto. Siccome nessuno si era fatto male, e non volendo rovinare il giorno di festa era stato magnanimo lasciando libero a patto che già quella sera avesse lasciato il villaggio per non farci più ritorno. 

07 luglio 2012

Il maestro Ogu - 1


Il maestro Ogu abitava al limite del bosco di Bamraga, non tanto lontano dal fiume di Laggario dove le donne del villaggio di Linoma andavano a lavare le vesti ed i bambini a giocare prima di farsi uomini.
Nel territorio di Dimbolara, ed anche oltre, si raccontavano molte storie sul maestro Ogu e sul suo passato. La più accreditata nel villaggio era quella in cui si narrava che il maestro da giovane fosse stato avviato alla vita clericale presso il convento di Norebo, che lasciò allo scoppio della guerra tra il regno di Ganspa e di Marigena deciso ad arruolarsi come soldato per vivere mille avventure e dimostrare il suo coraggio e d il suo valore.
Passati più di vent’anni dalla fine di quella sanguinosa guerra, il maestro faceva il suo ingresso nel villaggio. Con se aveva un asino e la sua soma ed una lettera in cui un vecchio compagno di ventura, a cui aveva salvato la vita, lasciava la vecchia casa in cui era nato e cresciuto.
Come in tutte le epoche anche in quella gli abitanti erano sospettosi verso chi arrivava da terre lontane..
Il maestro, dopo essersi presentato al capo del villaggio, il Capitano Gedio, prese alloggio nella sua nuova dimora.
Ed è da quel dì che al racconto si sostituisce la cronaca della vita del maestro Ogu che quest’umile scrittore vuol riportare.

I primi mesi del maestro nel villaggio furono tutti uguali, o almeno così parvero ai giovani abitanti del villaggio. Si alzava presto, quando il sole era appena uno spicchio all’orizzonte, e si inoltrava nel bosco  da cui tornava quando il sole era un disco alto nel cielo.
Dalla sua cintura pendeva quasi sempre una lepre o qualche altra piccola preda, oltre ad una piccola borsa con dentro erbe e bacche. Sulle spalle un fagotto anch’esso spesso pieno. Deposto il fagotto in casa ed acceso il fuoco, si recava al fiume poco distante per riempire il secchio di acqua e cercare un po’ di refrigerio nelle fresche acque.
Rifocillato, lavorava con l’aiuto dell’asino che si scoprì avere il nome di Armenio, alla ristrutturazione della casa. Mentre lavorava i ragazzini del villaggio sfilavano per spiare il nuovo arrivato con la scusa di andare a fare un bagno o un tuffo.  Con loro a volte appariva anche qualche abitante del villaggio. La sera, alla luce di una piccola lanterna e della luna, lavorava piccoli pezzi di legno o suonava una specie di Mandola. Capitava a volte di vederlo leggere, cosa rarissima in quelle terre, in cui tale attività era ad uso solo di pochissimi persone tra cui mercanti e frati.
La vita molto riservata del maestro aveva iniziato a far parlare gli abitanti del villaggio. Ed allora, come oggi, le parole passando di bocca in bocca diventarono vere e proprie fantasie. Qualcuno iniziava ad affermare che fosse uno stregone o qualche figlio del Diavolo inviato per punire gli abitanti rei di non dire le orazioni o di peccati ben più gravi.
I più facinorosi spingevano per scacciare questa figura tanto diversa da loro facendosi forti di presagi funesti e sventure di cui incolpavano il maestro.
Il Capitano Gedio si opponeva dall’alto della sua carica di capo del villaggio in quanto non credeva a nessuna delle dicerie del popolo, mosso più dall’ignoranza che dalla realtà. Il Capitano, che aveva avuto la possibilità di scambiare alcune parole con il maestro al suo arrivo aveva intuito che quell’uomo aveva in se qualcosa di grande e superiore che poteva spaventare o affascinare la gente.
Venne così, tra l’alternarsi di giorno e notte, il dì della festa del raccolto, in cui mercanti di contee vicine e lontane arrivavano al villaggio per fare scambi ed affari. C’erano anche bancarelle e saltimbanchi ed una miriade di persone di tutti i ranghi. In quei giorni arrivarono anche alcuni frati, dal vicino convento di Cefeli, per la questua.
In mezzo a questa marea umana fece scalpore l’arrivo del maestro Ogu accompagnato dal fido Armenio che portava sulla groppa due bisacce. Il maestro si recò tra gli sguardi degli abitanti e dei mercanti alla casa del Capitano Gedio a cui mostrò il contenuto delle bisacce. Una era piena di pelli, mentre la seconda celava alcune statue di legno rappresentanti vari animali.
Il maestra voleva vendere tale mercanzia per poter comprare alcuni utensili ed altre cose di cui necessitava.
Il Capitano rimase stupito della bellezza dei pezzi tanto che volle comprarne uno da regalare al figlio che avrebbe compiuto 6 anni qualche giorno dopo. Si propose anche di accompagnare il maestro durante la vendita della mercanzia nella speranza di conoscere un po’ di più di quest’uomo. Il maestro accettò di buon grado, sapendo che con a fianco il Capitano la vendita sarebbe stata più agevole visto che avrebbe dovuto affrontare la diffidenza degli abitanti. E poi chi meglio del Capitano poteva conoscere i mercanti arrivati nel villaggio.
Come supposto la vendita andò bene. Comprati gli utensili e le spezie di cui aveva bisogno, invitò il Capitano a brindare gli affari fatti e per ringraziarlo. Questa volta fu il capitano ad accettare di buon grado.
Gli abitanti del villaggio intanto erano sempre più stupiti di vedere il Capitano accompagnarsi con questa figura tanto misteriosa, in quanto poco conosciuta.   

01 luglio 2012

Chiamo dopo


Caro Lettore,
eccomi di nuovo davanti alla tastiera per scrivere un post, o almeno cercare di farlo.
Questo post ricorda molto le telefonate che si rimandano perchè si è stanchi o è troppo tardi o perchè si pensa di disturbare. In questo modo piano piano si perdono i contatti. Prima ci si sentiva tutti i giorni e non importava l'ora o cosa si doveva dire, la cosa che importava era sentire la persona dall'altro capo del telefono. La stessa persona che magari si era salutata solo qualche minuto prima. Ed ora... a volte si fa fatica anche a trovare quel numero che prima si sapeva a memoria e si poteva ripetere anche sotto un attacco narcolettico.
Rimanda oggi, rimanda domani ed alla fine non ti restano che i ricordi. Ci si rivede, magari per caso a qualche evento “mondano” ma la magia è passata, come quella calda estate dell'82 di cui resta uno splendido ricordo in chi ha avuto la fortuna di esserci ed anche in chi non c'era ma a forza di sentirselo raccontare è come se ci fosse stato anche lui.
Questo post ha lo stesso sapore.
Mentre butto giù queste parole il caldo bussa da tutte le parti tanto che anche youtube ne risente. La ventola del pc gira quasi più forte dei miei ammennicoli in storiche inc....ture. Inizio a pensare che una parte del famoso Caronte si generi proprio all'interno del case del mio pc.
Spero di ricordarmene quest'inverno, quando avrò smesso di lamentarmi per il caldo ed avrò iniziato a lamentarmi per il freddo.
Mentre scrivo, chatto anche con un'amica che per amore e per lavoro si è trasferita all'estero.
Lei non è la prima. Quest'anno anche uno dei quattro moschettieri del Poli è volato lontano. Ora è in Cina. Sembra che si sia innamorato della città che lo ospita, dello stile di vita e forse anche di qualche sottana...
il post sta prendendo sempre più la forma di quegli scambi di battute tra vecchi amici che non si vedono da tempo. Amici con cui si è diviso tanto e con cui ora non si ha più nulla in comune. Si parla del tempo passato, di quello climatico, delle conoscenze comuni...
facciamo così, caro Lettore. Ora riattacco e richiamo quando avrò qualcosa da dire/scrivere.
La cosa importante è che tu sappia che non ti ho dimenticato, come non ho dimenticato il mio blog.
Buona vita.