Sono seduto su una delle panchine della
fermata del metrò della città che mi ospita. La primavera qui è
arrivata solo sul calendario. L'area è fredda come alcuni degli
indigeni del luogo. A volte penso che il capitano dei surgelati abbia
anche lui residenza qui. Intanto che aspetto l'arrivo del mio treno
sento il freddo della giornata che dalla lastra di marmo della seduta
della panchina, attraverso la stoffa dei miei pantaloni risalga dalle
terga su per la spina dorsale fino alle 7 vertebre cervicali che a
fatica sorreggono il capo che sento sempre più pesante con il
passare del tempo ed entrare direttamente dentro la mia anima. Il
vento gelido che si intrufola nel colletto della giacca poi arriva a
dar man forte all'attacco terrestre, tanto che vengo attraversato da
un onda di brividi che mi fanno accapponare la pelle.
Alzo il bavero della giacca e provo a
stringermela addosso per farla aderire il più possibile e non
lasciare parti scoperte ed indifese. Cerco di trattenere tutto il
calore prodotto in maniera da auto-sostenermi. Incrocio le braccia
sul petto e con un gesto poco elegante infilo le mani sotto le
ascelle. Ah finalmente un po' di calore.
La sensazione dura poco perché
l'ennesima folata di area gelida preannuncia l'arrivo del treno prima
ancora che questo esca dalla galleria.
La metropolitana arriva dopo pochi
secondi. Aspetto sino all'ultimo per salire. Mi sento tutto
intorpidito ed ho paura di frantumarmi mentre mi muovo verso le porte
del convoglio. Non voglio disperdere quel poco di tepore che avevo
iniziato ad assaporare. A quest'ora c'è pochissima gente sulla
carrozza, e per la prima volta rimpiango l'ora di punta con tutta
quella gente che affolla le banchine ed i treni. Mi manca l'effetto
stalla che tanto viene rappresentato nei presepi nel periodo
natalizio e che ora tornerebbe davvero utile.
Mi manca anche il contatto umano,
obbligato dalla mancanza di spazio, con questi estranei. A volte è
anche l'unico contatto fisico che ho con un'altra persona nell'arco
dell'intera giornata. Mi siedo ed aspetto che le porte si chiudano ed
il treno parta. Il mio viaggio ha inizio e finirà dopo 14 fermate.
In questo tragitto incrocio pochissimi passeggeri e quasi tutti
stranieri. Mi soffermo a guardare un ragazzo di colore con una
capigliatura afro che si è seduto difronte a me. Non avrà ancora
diciott'anni penso. Porta scarpe da ginnastica bianche con lacci
verde fluo. I jeans finto usati fanno da sostegno ad un piumino
arancione che lo fa assomigliare ad un naufrago su un gommone in
attesa di aiuto. Chi sa se è arrivato in questo paese proprio così.
Penso che se io ho freddo chi sa lui che deve essere abituato a climi
ben più caldi. Di colpo si diffonde la voce di uno dei rapper che
tanto vanno di moda ora tra i giovani. Il ragazzo estrae dalla tasca
uno smartphone con una cover che ricorda la bandiera rastafariana e
risponde al telefono. Stupito sento che l'accento non ha nulla di
esotico ma è uno di quelli tipici di una delle città “operose”
del nord est della nazione.
Non ho ancora metabolizzato del tutto
che ormai siamo una nazione multietnica. Lo stupore viene sostituito
quasi subito da un po' di vergogna per questa mentalità legata a
stereotipi arcaici che non vorrei avere, e dal piacere di riscontrare
come la vita a volte se ne frega degli stereotipi e delle parole di
alcuni personaggi che aizzano all'odio razziale e va avanti lo
stesso.
Cerco di non ascoltare la telefonata
anche se qualche parola si intreufola nei miei pensieri. Come
studiare, compiti e la parola che mi si stampa in mente. MI MANCHI.
Arriva la mia fermata, ma faccio fatica
a metterla subito a fuoco. La mia mente si è di colpo ingolfata a
sentire quelle parole.
Per fortuna che la parte razionale
della mia mente riesce a prendere per un attimo il controllo e con un
balzo sono fuori mentre le porte si richiudono alle mie spalle.
Vedo il treno partire con il ragazzo
ancora al telefono e mi chiedo a chi avrà detto quelle parole, le
stesse che io ho pronunciato qualche ora prima.
Al telefono.
Ad una persona che mi manca.
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